Recensione apocalisse nel deserto regia di Werner Herzog Germania 1991
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Recensione apocalisse nel deserto (1991)

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locandina del film APOCALISSE NEL DESERTO

Immagine tratta dal film APOCALISSE NEL DESERTO

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Immagine tratta dal film APOCALISSE NEL DESERTO

Immagine tratta dal film APOCALISSE NEL DESERTO
 

Il film è un mediometraggio diviso in tredici brevi capitoli accompagnati con discontinuità da un commento fuoricampo straniante e suggestivo: "Un pianeta del nostro sistema solare…".
Il primo capitolo ("Una capitale") ci mostra Kuwait City prima della guerra, una città in cui "nessuno sembra presagire il destino che l'attende".
All'improvviso lo spettatore viene precipitato nelle acque del Golfo. È l'avvisaglia della tragedia incombente.
Il secondo capitolo ("La guerra") è davvero cortissimo poiché "la guerra è durata qualche ora appena". Introdotte da una sirena d'allarme, appaiono solo immagini di repertorio sui bombardamenti di Baghdad, viste all'epoca migliaia di volte nei servizi televisivi della CNN e che sembrano quasi scene da videogioco.
Nel capitolo successivo ("Dopo la battaglia") troviamo i segni d'un paesaggio desertificato: lo stormo di alcuni uccelli neri, grandi ossa scarnificate, imponenti condutture in disuso, raffinerie abbandonate e sommerse dalla sabbia, cisterne implose per la fusione, parabole giganti sbriciolate.
Nei capitoli ulteriori si sprofonda a poco a poco nel "Parco Nazionale di Satana": delle riprese anche troppo fascinose ed estetizzanti svelano lentamente una foresta ricoperta di petrolio e, tra nuvole di fumo scuro e denso, ci si addentra sempre più nelle testimonianze visive del disastro ecologico compiuto, fino a giungere ai primi fuochi dei pozzi in combustione, alla dimora del male. Questa parte è intercalata fra un paio di capitoli ("La stanza della tortura" e "L'infanzia") in cui vediamo locali con oggetti di sevizie indicibili e ci viene presentata una donna che ha perso la parola per la paura e tenta vanamente d'esprimere il suo tormento interiore. Ma soprattutto ci viene mostrato un bambino piccolo che, a causa del terrore vissuto, ha deciso di non voler più parlare. In merito a tali episodi Herzog ha spiegato: "Contemporaneamente alle riprese sono andato alla ricerca di individui la cui ferita riportata in seguito all'irruzione delle truppe irachene fosse la perdita della parola. Volevo l'emblema dei danni arrecati a un paese, a un popolo".

Durante il settimo capitolo ("E si levò il fumo come il fumo di una fornace"), il commento assume i toni d'una catastrofe biblica, e nell'adagio avvicinarsi al regno di Satana le inquadrature aeree indicano che ne siamo infine giunti al cuore, tra vampe di fuoco guizzanti in mezzo a muraglie di cupe esalazioni.
Nell'ottavo capitolo ("Un pellegrinaggio") le immagini sono girate nel silenzio e a stretto contatto con le manovre di spegnimento dei pozzi.
Le figure umane appaiono ingabbiate in tute d'amianto, simili a extraterrestri, mentre alcuni macchinari imponenti gettano enormi quantità di sabbia sui buchi aperti dai pozzi, e altri con braccia infinite depositano candelotti di dinamite sui pozzi stessi per soffocarne le fiamme.
Nel nono capitolo ("Il banchetto dei dinosauri") le squadre dei tecnici s'aggirano ormai fuse con gli utensili e con i giganteschi mostri d'acciaio che le aiutano nella loro impresa.
Nei due capitoli successivi ("Protuberanze", "Lotta contro il fuoco") assistiamo alla fase posteriore allo spegnimento, con il personale specializzato impegnato a interrompere l'enorme flusso d'oro nero che fuoriesce dai pozzi spenti per incanalarlo dentro tubazioni da cui verrà finalmente recuperato sotto pieno controllo. Ma proprio tale vittoria sulla natura ridisegna in modo inquietante le sembianze degli uomini. Questo macabro sospetto trova conferma nel penultimo capitolo ("Vita senza fuoco"). Infatti i pozzi, a uno a uno, vengono riaccesi.
Il nome del capitolo conclusivo ("Sono così stanco di sospirare, o Signore, fa' che scenda la notte") è una supplica esaudita al termine stesso del film: calano le tenebre, il buio mimetizza la coltre nera, subentra il "Notturno" di Schubert che prosegue sui titoli di coda.

Werner Herzog, nome d'arte di Werner Stipetic (Sachrang, Germania 1942), eccentrico e visionario, è un caso unico, isolato, tra gli autori del nuovo cinema tedesco. Trascorre gli anni adolescenziali con la madre jugoslava, divorziata, in un contesto d'acuta indigenza.
Autodidatta, ha ricercato le fonti del suo cinema nelle radici della cultura del suo Paese: pittura e musica medioevale, letteratura romantica (Büchner più di ogni altro). La sua poetica è l'espressione d'un impulso che assume contorni quasi mistici, fino alla sua più recente deriva in direzione dell'ortodossia buddhista. Fare cinema, per Herzog, significa creare immagini "non ancora viste", d'un'intensità che sfugge alla nostra percezione abituale, e insieme concentrarsi su personaggi sofferenti, devianti, allucinati, marcati da un'alterità assoluta rispetto al quotidiano. Un compito simile ha richiesto al regista una dedizione completa, al limite del rischio fisico, che lo ha portato a girare nelle zone più impervie e meno civilizzate della terra, caratterizzandosi sempre per una grande sensibilità visiva, metafisica, spirituale, estatica verso il paesaggio, oltre che per il contatto diretto, magnetico con i suoi singolari interpreti. Il suo universo di valori è in pratica tutto riassumibile nella condanna del nostro consorzio umano smanioso di soggiogare la natura, bramoso d'un titanico dominio sulla realtà. Solo gli emarginati, i portatori di seri deficit psicofisici e le personalità disturbate, in nome dell'antico quanto logoro mito sette- ottocentesco del buon selvaggio, godrebbero della possibilità d'armonizzarsi senz'alcun problema o mediazione con l'ambiente non artificiale, potentemente maestoso proprio perché primitivo, esotico e selvatico. I sordociechi e gli autistici gravi di "Paese del silenzio e dell'oscurità" (1971), un caso psichiatrico come Bruno S., protagonista de "L'enigma di Kaspar Hauser" (1974) e de "La ballata di Stroszek" (1977), gli attori di "Cuore di vetro" (1976), ipnotizzati e quindi in scena con una fissità da straniamento brechtiano, sono i privilegiati che beneficerebbero d'una fusione panica, o buddhista, verso fauna, flora e regno minerale, i quali di per sé stessi non avrebbero bisogno d'alcuna miglioria.
Anche se Herzog dichiara che "C'è una sequenza del mio "L'enigma di Kaspar Hauser" in cui il protagonista dice davanti ai preti: «Quando mi vedo attorno e vedo la gente, sento in verità che Dio ha qualcosa contro di noi»; [...] "Ognuno per sé e Dio contro tutti": questo è il titolo del film nell'originale tedesco"; ebbene, anche in queste circostanze il cineasta lascia intendere il sussistere d'una conflittualità deleteria, malata, insana, infernale solo ed esclusivamente dovuta a persone lontane dalla condizione del "bon sauvage".
Viceversa, quando in "Anche i nani hanno cominciato da piccoli" (1970) tutti gli interpreti sono dei portatori d'handicap, il film si pone l'unico scopo satirico e sarcastico di rappresentare per via allegorica la deformità della sedicente società normale.

Nel febbraio del 1991, durante la prima Guerra nel Golfo, il dittatore iracheno Saddam Hussein diede seguito alla minaccia d'incendiare i pozzi petroliferi in Kuwait. Da quel momento le fiamme, apparentemente indomabili, si levarono alte nel cielo per oltre sette mesi e resero necessarie complesse operazioni di spegnimento. Herzog, da sempre ossessionato dall'idea di testimoniare situazioni estreme, ma soprattutto di conservare una traccia visiva di culture morenti per loro mano e di paesaggi incontaminati segnati da un cambiamento irreversibile, si reca sul luogo con l'intenzione di prestarci i suoi occhi irrequieti per impressionare su pellicola immagini perturbanti, quelle dei pozzi petroliferi in fiamme e i relativi tentativi di recuperarne il controllo. Nasce così "Apocalisse nel deserto", il cui titolo originale "Lektionen in Finsternis", letteralmente "Lezioni nell'oscurità", "si riferisce a una funzione liturgica della Settimana Santa in cui si leggevano le ["L]lamentazioni["] del profeta Geremia" (Mereghetti). Suddiviso tra il prima e il dopo la guerra nel Kuwait, il film si apre con una citazione, inventata dal regista e attribuita a Blaise Pascal, che è allusiva verso gli esiti devastanti dell'intervento civilizzante: "Al pari della creazione, anche la morte del sistema solare avverrà con maestoso splendore".

Ogni fotogramma di quest'opera presenta il nostro pianeta sfigurato, in un'atmosfera quasi fantascientifica. Kuwait City ancor prima dell'invasione ha già l'aspetto d'una base lunare più che d'un luogo abitato della Terra. E il deserto, ferito dall'uomo con la guerra invece che già dalla stessa natura, nel silenzio d'un'angosciante alternanza di carrellate terrestri e aeree accoglie le carcasse d'animali, i resti d'una società estinta, macchinari fermi o distrutti, bunker disabitati, impianti petroliferi demoliti e fumanti, enormi cisterne e container fusi dal calore. I movimenti della cinepresa danzante a ritmo di musica classica riecheggiano "2001: Odissea nello spazio" di Kubrick e propongono lo sguardo di chi osserva incredulo lo spettacolo della fine del mondo. Il riflesso del cielo sulle distese di laghi apparentemente veri, cambiando inquadratura svelano solo lande desolate di petrolio che dall'alto mimano l'acqua. Lo scenario inizialmente "thaumatico"-stuporoso a cui assistiamo nasconde una realtà visceralmente traumatizzata e stritolata.
Herzog, da fenomenologo della presunta sciagura apportata dalla civiltà, denuncia con uno stile documentaristico, inseguendolo a ogni capo del globo, il limite ultimo raggiunto dalla fanìa di questo presunto male che sembra non avere misura. Perciò egli mostra gli strumenti di tortura sapientemente elaborati da psichismi esperti del dolore, dà spazio alle vittime ammutolite dalla sofferenza inflitta dai carnefici, i quali tuttavia non ci vengono mai presentati o indicati, essi sono la grande mancanza onnipervasiva, a noi è consentito solo il constatarne impotenti le opere.
Le pozze di petrolio che ribolliscono in fogge primordiali, gli zampillii incandescenti di greggio incendiato e le conseguenti emissioni turbolente e asfissianti, che colmano ogni immagine come un coacervo magmatico-informale con tinte cromatiche rosse, arancioni, grigie e nere, sono la testimonianza che la negatività umana può esplodere furente in ogni momento e in ogni dove.

Nella seconda parte del film, la macchina da presa mette i piedi per terra e vaga errabonda tra coltri impenetrabili di fumo, lingue di fuoco impazzite e una pioggia scura. Compaiono nuove forme d'esistenza, arbusti neri dalla fisionomia spettrale, elicotteri come uccelli, camion e ruspe gigantesche come dinosauri che rovistano nel terreno. Quest'ultimi sono gli strumenti degli addetti allo spegnimento del fuoco eruttato dalle bocche dei pozzi, neutralizzato con l'esplosivo. Mediante una serie di primi piani vediamo gli uomini deturpati da sogghigni sinistri e l'elemento satanico sembra impadronirsi dei loro volti, attraversarli come una rasoiata, generando la sensazione che partecipino d'un'essenza demoniaca. Ad accompagnamento della scena e del ritorno dei canti di Mahler, la voce fuoricampo dice: "Due figure si avvicinano a un pozzo di petrolio. Una ha in mano una torcia accesa. Cosa stanno per fare? Vogliono forse riappiccare l'incendio? Forse la vita senza fuoco è divenuta per loro insopportabile? Altri, preda della follia, li seguono. Adesso sono contenti. Ora c'è di nuovo qualcosa da spegnere". Alcuni interpreti hanno letto tali frasi in chiave sociopolitica: il progresso consumistico deve cibarsi d'una distruzione inesauribile. Ma è molto più probabile che a Herzog siano interessati i classici rimandi al fuoco di Prometeo e alla tecnica come superbia. "Kalachakra - La ruota del tempo" (2003) e la conversione al buddhismo costituiscono il suggello di questa sua ormai quarantennale poetica.

Mauro Lanari

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Recensione a cura di Hal Dullea - aggiornata al 02/09/2008

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